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CLAUDIO CARAMADRE

Page history last edited by giordano golinelli 13 years, 5 months ago

Intervista a Claudio Caramadre

Azienda agricola Biocaramadre

(Fiumicino, Roma)

 

TEMI: agricoltura biologica chimica clienti convenzionale mercato ortaggi

 

ASCOLTA

 

Trascrizione

Claudio Caramadre: Allora mi chiamo Claudio Caramadre, ho 47 anni e faccio l’agricoltore, l’orticoltore, per l’esattezza

LAST FOOD: Senti ci racconti un po’ dove siamo e cosa si produce in questa azienda

CC: Allora in questo momento siamo a Torrimpietra, vicino Maccarese, nel comune di Fiumicino, e qui si coltivano ortaggi, ortaggi in pieno campo in questo caso

LF: Questa è una parte di un’azienda più grande?

CC: è una parte di un’azienda più grande, ci sono altri due corpi aziendali, più piccoli, questi sono 12 ettari, ne abbiamo un altro di 7 ettari e un altro di 5 ettari, su uno ci sono installati anche due ettari di serre fredde.

LF: Ok, ci racconti un pochino la vostra storia, quando avete cominciato, che fasi avete percorso

CC: La nostra storia è una storia caratterizzata da un nucleo familiare, cioè mio padre era un piccolo orticoltore e faceva parte di quei piccoli produttori agricoli che formavano una cintura intorno a Roma, alla periferia di Roma. Avevano piccoli appezzamenti, mio padre aveva un ettaro di terra, con un banco per vendita diretta in un mercato rionale. E diciamo all’epoca, poi parliamo degli anni sessanta, riuscivi ad avere una vita dignitosa anche con un’azienda così piccola. Dopodiché io come tutti i giovani ho studiato, a 18 anni avrei fatto tutto meno che il lavoro di mio padre, tant’è vero che io sono perito elettronico specializzato in servocomandi industriali. Però mi è bastata una piccola esperienza di lavoro, nel mio settore per cui ho studiato, per farmi diciamo rivedere tutte le mie scelte prese fino in quel momento, e allora siamo tornati in azienda. Siamo tornati perché questa scelta è stata condivisa da un mio fratello più grande, e abbiamo ripreso in mano l’azienda che era di mio padre. Però, ovviamente, diciamo ampliandola e ristrutturandola completamente, quindi siamo partiti prima con l’acquisto di un pezzo di terra, poi di un altro, poi in questo processo ci sono state due fasi evolutive.

Una fase evolutiva che è stata a scelta del biologico, avvenuta circa 10 anni fa, anche se era un’idea che coltivavo da molto tempo, però abbiamo deciso di intraprendere la strada del bio solamente nel momento in cui c’era un mercato interessante, o almeno un’idea che non volevo fare era quella di fare l’orto per 4 fricchettoni radical chic con i soldi che non era assolutamente la mia impostazione. L’agricoltura biologica per me è agricoltura a tutti gli effetti, non è una cosetta da nicchia, per pochi. Ma è l’agricoltura, quindi dovevo fare un prodotto che poi fosse acquistabile da tutti, e ho aspettato in questa fase che l’agricoltura biologica superasse le prime fasi iniziali più stentate, più problematiche, e fosse sufficientemente cresciuta per poter convertire un’azienda che già all’epoca aveva raggiunto dimensioni medie.

Un altro processo interessante è stato quello invece della ristrutturazione interna aziendale, con l’ingresso di nuove persone a lavorare, molte delle quali erano praticamente parenti, ma non coinvolte direttamente nella prima fase iniziale dell’azienda, abbiamo costituito una cooperativa, una cooperativa di lavoro, a cui, praticamente, i soci fondatori, che eravamo io e mio fratello, abbiamo dato in affitto le nostre proprietà. Ma poi si è espansa prendendo altri terreni in affitto, e in questa maniera abbiamo formato, diciamo, è sempre un’azienda a carattere familiare, perché poi i soci sono comunque tutti quanti più o meno legati da rapporti di parentela, anche se ultimamente abbiamo fatto entrare nella cooperativa due dei nostri operai extracomunitari indiani, questo per avere anche un coinvolgimento loro in questa impresa. E abbiamo ristrutturato quella che poteva essere fino a qualche anno fa l’impresa diretto-coltivatrice familiare, dove però si vengono a creare sempre delle tensioni tra i vari rapporti, cioè sono molto belle a vederle da fuori, ma poi se ti ci cali dentro ci sono sempre tensioni non…a volte non risolvibili all’interno della famiglia stessa. Invece con questo sistema siamo tutti alla pari, lavoriamo tutti insieme, l’unica differenza è che ci sono i due soci fondatori che percepiscono un affitto per gli immobili che hanno dato alla cooperativa, ma come gli altri proprietari dei terreni che abbiamo in affitto.

Questo è stato diciamo un po’ il nostro processo di formazione.   

LF: Senti ci fai capire che cosa vuol dire passare al biologico, a parte i dati tecnici no, come cambia il modo di coltivare i campi, ma anche da un punto di vista proprio di sostenibilità dell’impresa che cosa vuol dire, cercare degli sbocchi alternativi di commercio anche, immagino.

CC: Cambiano moltissime cose, la prima cosa, quel per cui diciamo almeno io sono stato spinto a muovermi verso il biologico è stata questa dipendenza, che io ho sempre definito tossicodipendenza da parte dell’agricoltura da parte dell’industria chimica. Ovverosia attualmente le aziende agricole, ma un po’ questo in tutto il mondo, sono passate, ma nel giro di pochi decenni, da essere totalmente autosufficienti ad essere totalmente dipendenti da input esterni. Cioè attualmente in una qualsiasi azienda agricola, ma soprattutto quelle orticole, è impensabile la gestione se non con profondi input chimici o comunque di industria, cioè, è un concetto che ho sempre portato avanti, è quello che se domani, per un qualsiasi motivo, fallissero tutte le industrie chimiche presenti sul pianeta, è un evento diciamo così da fantascienza, automaticamente noi non saremmo più in grado di produrre cibo, perché non abbiamo più le conoscenze tecniche per affrontare una produzione che non sia supportata da diserbanti, insetticidi e fertilizzanti chimici. Cioè la produzione alimentare che è una cosa praticamente spontanea è diventata invece totalmente dopata. E questo concetto è il concetto che mi ha spinto ad intraprendere una strada diversa, cioè non è possibile essere dei drogati, io voglio essere libero, non voglio dipendere da qualcuno. Questo è già un primo diciamo approccio, poi ci sono tutta un’altra serie di approcci di trattamento del terreno, nel mantenimento, anzi, nell’aumentare la sostanza organica nel terreno, nel rafforzamento delle difese della pianta, cioè è un, diciamo, cambia molto il concetto di lavorare, non più inteso semplicemente come esecutore, cioè l’agricoltore oggi come oggi è un semplice esecutore, lui ha un problema e ci sta qualcun altro  che gli dà la soluzione, cioè lui non ci mette più niente di suo, della sua fantasia, della sua immaginazione, delle sue capacità. Bensì semplicemente esegue un lavoro che gli viene programmato, programmato a monte. E per sfuggire da questo sistema ti devi svincolare da tutti quanti questi legacci, il discorso è molto complicato e molto ampio, perché poi si sovrappongono tutta una serie di cose, si comincia a smantellare un mattone e poi, diciamo, si aprono scenari molto molto ampi. Indubbiamente c’è anche un rivedere la commercializzazione del prodotto.

Questo però se da un lato diciamo è un problema perché comunque il mercato del prodotto biologico è un mercato di nicchia, è un mercato molto stretto, condizionato, è pur vero che impone all’agricoltore di espandere il proprio cervello, ovverosia se tu fai agricoltura convenzionale e conferisci il tuo prodotto ad una cooperativa o vendi alla GDO, non hai nessun tipo di problema, ti devi soltanto preoccupare di produrre e al limite poi incassare i soldi. Non è quello il grosso problema. Invece fare un prodotto, che poi è di difficile collocazione, ti spinge comunque a cercare nuovi sbocchi, a cercare nuove soluzioni commerciali, e questo secondo me è uno stimolo molto forte che fa crescere molto l’azienda.

LF: Ok, non sei il primo che mi dà l’idea che ci sia un che di esaltante anche nel tornare, o nel passare, al biologico, non sei il primo che mi dice che trova entusiasmo quotidiano nel dover sforzare il cervello, no? Dopo magari esser stato per anni, ora non so se è il tuo caso, un esecutore.

CC: Si si, noi abbiamo fatto per anni, cioè noi veniamo da un processo abbastanza…noi abbiamo fatto per anni chimica e chimica pesante, ci stava, diciamo, negli anni 90’ il bromuro di metile come acqua fresca, per questo a volte ho, diciamo, percorso tutti gli aspetti o conoscenze di quello che l’agricoltura normale, cioè l’agricoltura che è quella che ci nutre al 90% tutti quanti. Veramente ha un impatto ambientale estremamente devastante, ha un impatto su chi opera soprattutto devastante, perché se il consumatore l’unico problema che ha è quello del residuo sulla mela, c’è stato uno che però quel prodotto l’ha sparso dentro al meleto, e quello ha rischiato mille volte di più del consumatore che si prende il residuo. Quello che abita, che ha la casa in Val Di Non in mezzo alle mele, non pensate che stia tanto bene, cioè non è un ambiente così idilliaco.

LF: Un tuo collega della provincia di Milano mi ha detto che è passato al biologico innanzi tutto per la sua salute, perché si è reso conto che ogni sera, tornando a casa, non ogni sera però spesso, tornando a casa, si doveva lavare prima di toccare i suoi figli, perché era sporco, era contaminato

CC: Si si, ma quello è…

LF: Ne parlavamo un secondo fa, a scuola, ancora adesso, quando si parla di agricoltura si vede la fattoria, un po’ da pubblicità, il contadino sul trattorino, la fattoria modello, con gli animali quasi sorridenti. Poi basta fare un minimo di ricerca per scoprire che l’agricoltura è un’industria, che la chimica è onnipresente, e che il petrolio anche è onnipresente. Sembra quasi che tutto questo sia stato pensato per ricollocare dei derivati della lavorazione del petrolio. Tu che hai tanti anni di esperienza, quand’è che è successa questa cosa, perché immagino che ai tempi di tuo padre magari si usava qualche prodotto chimico però non c’erano soldi per impostare tutta un’azienda su input esterni. Bisognava rimboccarsi le maniche e andare nei campi.

CC: C’è un passaggio epocale, cioè prima cosa c’è stata l’eliminazione dei contadini, perché oggi, per quanto se ne voglia dire i contadini non ci sono più, sono dei piccoli industriali, cioè, se non andiamo a guardare, il passaggio sicuramente è avvenuto negli anni settanta. Cominciate le prime avvisaglie negli anni cinquanta, il colpo di trasformazione grosso c’è stato negli anni settanta e si va avanti verso questo processo, che non è solo quello dell’introduzione della chimica e tutto il resto, ma c’è anche un altro intervento profondissimo che è quello della distruzione delle piccole aziende agricole. Se un prende i dati, che poi sono facilmente reperibili, penso su Istat e compagnia bella, se uno li legge scopre che praticamente in Italia ci stanno circa due milioni e qualcosa di aziende agricole, due milioni e mezzo. Però di questi due milioni e mezzo, il 60% vengono definite improduttive, cioè soltanto delle partite Iva aperte, dei vecchi, dei pezzettini buttati là, ma effettivamente, da un punto di vista produttivo, sono totalmente insignificanti.

Ne rimane un 40%, di cui un 20-30% vengono definiti con un bel termine tecnico, quelle sono vitali, cioè ancora non sono morte, ma stanno lì lì per morire. Ne rimane un 10%, un 10-15%, che sono quelli che fanno la produzione, e queste sono aziende molto grandi, molto strutturate, ma dove non c’è più il contadino. Non pensiamo soltanto alla fattoria con l’animale felice, una volta c’era pure la fattoria dove c’era il contadino, questa immagine poetica, bucolica, di questo personaggio, questo personaggio è morto. Ormai queste aziende sono aziende industriali, gestite da agronomi, dove non ci sono più contadini ma dipendenti. Questo passaggio sta avvenendo sotto i nostri occhi, senza che noi ce ne rendiamo neanche conto, non dico che ci deve essere un movimento di opposizione, perché se il progresso deve essere questo è giusto che sia questo. Però almeno che ci sia la coscienza, cioè dire “questo pomodoro è prodotto da un contadino” oggi come oggi è sbagliatissimo, molto probabilmente quel pomodoro è stato prodotto da un’industria che fa pomodori, o quel latte è stato prodotto da un’azienda che ha un’industria che alleva animali. Che poi ragionano completamente con impostazioni industriali, cioè si segue il business, non gli interessa assolutamente niente del territorio. Cioè il contadino la prima cosa che preservava era il terreno, il suo terreno, perché sapeva che da lì proveniva il suo sostentamento e quello dei suoi figli, ed era stato il sostentamento dei suoi nonni. Oggi come oggi, l’agribusiness, come si chiama, praticamente il terreno è una cosa che serve per piantarci le piante, ma se ci potessero fare i capannoni domani mattina non ci mettono un secondo, a cambiare, a sconvolgere, a distruggere un ambiente che comunque per loro è insignificante. Non vorrei che un domani ci troviamo, come adesso ci troviamo le cosiddette aree industriali dismesse, magari un domani ci troveremo con le aree agricole dismesse.

LF: Il biologico, non sei il primo che me lo dice, è innanzitutto una questione culturale, più che meramente tecnica di cambiamento del modo di produrre.

CC: C’è un’impostazione mentale diversa dietro.

LF: Ci sono delle politiche che lo sostengono, cioè essendo così importante da un punto di vista culturale e ambientale, e anche sociale, anche economico perché comunque dà lavoro ad aziende medio – piccole, si fa tanta retorica, no, sull’ossatura dell’economia italiana. Esistono delle politiche pubbliche, nazionali o regionali, che sostengono la produzione biologica o se mancano di che cosa ci sarebbe bisogno.

CC: Ci sono ed erogano pure molti soldi, l’unico problema, come tutti gli interventi in agricoltura fatti dallo Stato, e che sono estremamente sbagliati. Perché poi sono un sostentamento alla conversione al biologico di aziende e quindi cosa succede, che questi soldi vanno a finire su grossi latifondi che non producono assolutamente niente, però fanno biologico, senza nessuna intenzione di fare produzione ma semplicemente l’unica intenzione è quella di prendere il contributo e quindi questo dopa enormemente il mercato. Cioè se tutti quei fondi fossero destinati ad una politica diversa, un po’ più, io adesso non mi occupo di marketing, però immagino io, cioè se tu vuoi promuovere l’agricoltura biologica non devi dare dei soldi perché dei terreni vengono convertiti al biologico, che non ha senso, tu quei soldi investili perché aumenti la sensibilità del consumatore verso il biologico, fai un investimento, cioè il contadino, che tu gli dai quei quattro soldi, nella nostra azienda i soldi noi li stiamo percependo solo da due anni, perché ormai abbiamo raggiunto una superficie tale per cui il contributo può essere interessante, ma noi per otto anni non li abbiamo presi, neanche li abbiamo chiesti i soldi, perché non ci interessano e non ci cambiano la vita. Anzi diventano quasi una scocciatura tutte quelle pratiche burocratiche per arrivare a quello.

Quei soldi destinali, come vogliamo dire, a delle azioni di marketing affinché il consumo di prodotto biologico aumenti e di conseguenza se aumenta il consumo la produzione ha tutti i vantaggi. Investili affinché ci sia una filiera più corta nel biologico, investili sulla distribuzione. Investimenti, secondo me, molto più mirati ed efficaci che questi interventi a pioggia che poi vanno, come i premi PAC, a favorire solamente il duca, il principe, il conte, il marchese e compagnia bella.

LF: Senti hai parlato dei consumatori, voi a chi vendete innanzitutto, quali sono i vostri canali di distribuzione.

CC: I nostri canali di distribuzione sono molto articolati, perché abbiamo fatto una scelta di non avere un solo canale per diminuire il rischio, quindi stiamo puntando ultimamente moltissimo sulla vendita diretta, sia in azienda che con un mercato rionale, con la collaborazione con la città dell’Altraeconomia di Roma, servendo alcuni gruppi di acquisto, alcuni negozi, però questa rappresenta, diciamo, una parte consistente ma non primaria dell’azienda che comunque si rivolge attualmente il nostro principale mercato sono le mense scolastiche del comune di Roma, per l’esattezza, ma anche della Toscana e di altre regioni.

LF: Come funziona questa esperienza delle mense scolastiche.

CC: Quella funziona molto ben, è la migliore di tutti, perché comunque si lavora su un programma, praticamente il prodotto è venduto già prima di piantarlo, noi sappiamo quali sono le loro esigenze, anche un anno prima. Quindi possiamo organizzare tutta la produzione in funzione di quella data, l’unico problema sta nel fatto che comunque è un mercato dove la qualità non è assolutamente premiata, perché per quanto vuoi parliamo di mense pubbliche date in appalto, dove c’è una fortissima corsa al risparmio, e non c’è soprattutto nessuno che valuti la qualità, soprattutto la qualità organolettica, basta che il prodotto sia accettabile e a buon prezzo. Però comunque rappresenta uno sbocco commerciale estremamente interessante.

LF: Un’ultima domanda sui consumatori diretti, non so se sarà capitato a te, però immagino che comunque tu ne abbia conoscenza, quando fate vendita diretta o qui o alla città dell’Altraeconomia, penso soprattutto, chi sono le persone che si avvicinano al Bio, se si può fare un profilo unico. Perché la gente si avvicina al Bio, che gente è, a che cosa è interessata, alla propria salute, al territorio.

CC: Abbiamo una gamma di consumatori abbastanza variegata, perché se nella città dell’Altraeconomia il consumatore che viene è prettamente il consumatore Bio, di cui una buona percentuale sono dei salutisti, che cerco di smontare continuamente, dicendogli il più possibile “Non comprate Bio nella speranza di non beccarvi un tumore, tanto il tumore ve lo beccate, e non avete capito niente” però lì il cliente del Bio ha normalmente cultura medio – elevata, età tra i 30 e i 50 anni mediamente. Il consumatore classico è la famiglia cosiddetta giovane, per quanto possono essere giovani oggi le famiglie, comunque con figli piccoli, questo è il target medio.

Però questa è una cosa che riguarda la città dell’Altraeconomia, invece nel mercato rionale, o nel punto vendita diretto in azienda, noi abbiamo fatto una politica diversa, quella di non marcare il fatto che il prodotto sia Bio, cioè che il prodotto sia Bio lo poniamo in secondo piano. Abbiamo puntato più sulla qualità del prodotto, sulla qualità organolettica, sulla conservabilità e tutta un’altra serie di fattori. E lì secondo me è la carta vincente perché poi alla fine abbiamo espanso la clientela a tutta una serie di personaggi che magari il Bio non sanno neanche che cosa sia, non lo vogliono sapere, neanche sono interessati. Però riescono a percepire la differenza di qualità. Puntare semplicemente sul Bio, Bio, Bio, marchio Bio, secondo me è un po’ chiudersi in una nicchia. I consumatori Bio qua in Italia sono una percentuale irrisoria, se vogliamo crescere dobbiamo affrontare le cosiddette persone normali, e li affronti solamente se li convinci con un prodotto di qualità.

LF: Sono d’accordo, quindi secondo te una mela cilena che arriva in una vaschetta di polistirolo con la plastica, con su scritto “Biologica” in realtà non è biologica. Non si può dire che è biologica.

CC: Si può dire perché ha tutte le certificazioni, le carte in regola per essere Bio, però quello non è biologico. Non è il concetto che uno poi…..biologico non è semplicemente una pecetta attaccata sopra un’etichetta o su una mela, è un processo, lo stavamo dicendo prima, un processo mentale, non è un processo produttivo. Per cui è un po’ diverso il concetto. Però non ci si può neanche chiudere troppo, cioè è meglio comprare una mela convenzionale nel momento giusto in Italia, piuttosto che a Giugno una mela cilena Bio, questo è lampante come discorso, anche perché non ce n’è la necessità, a giugno mangiati le pesche, che c…o vai a comprare le pere.

LF: Sono d’accordo, posso approfittare ancora un secondo?

CC: Sì.

LF: Un’altra cosa che si dice spesso parlando con la gente è che il biologico costa troppo, molti dicono “Ah io se potessi lo comprerei, però costa troppo, poi chi si fida, chi mi garantisce” eccetera eccetera.

CC: Hanno ragione.

LF: Io penso che non ci sia miglior garanzia che sapere dove viene, andare ad incontrare la persona che la fa, ma quello che ti chiedo, il mio dubbio è questo, che forse non è il biologico che costa troppo, forse è il convenzionale che costa troppo poco, e quindi a fare una battaglia sui prezzi si perde. Perché quando da una parte hai, io abito vicino all’orto mercato di Milano, e ci sono dei momenti dove ti tirano dietro le cassette di qualsiasi cosa ad un euro, hai voglia a combattere su quei prezzi lì. Quindi la battaglia per te è quella della qualità, del locale, della prossimità.

CC: Tu hai toccato un tasto che a me sta molto a cuore, cioè quando si parla di agricoltura, hai detto giustamente te, i prodotti costano troppo poco, poi se consideriamo il fatto che al produttore arriva circa il 20% di quello che è pagato, costa estremamente poco. Noi non possiamo chiudere, questo è il tasto dell’impiego di manodopera in agricoltura, soprattutto in orticoltura, dove veramente si raggiungono livelli che toccano lo schiavismo e di più. Però questo tasto non viene mai toccato, è impensabile che si possa acquistare un pomodoro a meno di un euro al chilo, sicuramente lì dietro c’è lavoro nero ma in quantitativi…cioè c’è lavoro nero sulla produzione, lavoro nero sul trasporto, lavoro nero sulla commercializzazione, condizioni di trasporto, di commercializzazione che sono ai limiti, non dico del terzo mondo, ma qualcosa anche di peggio. Però questo è tutto sottaciuto da tutte le parti, cioè possono essere delle inchieste che vengono fatte ogni tanto, poi secondo me c’è la paura di dire “guardate che se volete che non solo non ci sia la chimica nel vostro piatto, ma che nel vostro piatto non ci sia anche la disuguaglianza sociale, la criminalità, dovete accettare che comunque il pomodoro lo dovete pagare, lo dovete pagare un prezzo equo”. Però poi questo tasto non si può toccare, perché comunque dobbiamo essere tutti abbastanza rincoglioniti da…oppure dobbiamo avere i soldi a disposizione per spendere in telefonia cellulare, in viaggi, in altre cose, e non possiamo spendere sull’alimentazione. Quindi è giusto che l’alimentazione costi due soldi, perché se si tocca l’alimentazione, poi partono subito le proteste, cioè le rivoluzioni si facevano per il pane, oggi come oggi sarebbe da fare la rivoluzione per il pane, ma perché costa troppo poco, non perché costa troppo caro.

 

Per approfondire:

 

Sito dell'Azienda

Rete semi rurali - Rete per la conservazione dell'agrobiodiversità in Italia

Rete dei GAS nazionali

 

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